La vendita della collezione

Passata al ramo senatorio nel 1787, la collezione non superò i tempi burrascosi che segnarono il crollo dell’Ancien Régime. L’elevata esposizione debitoria della famiglia, proprietaria di palazzi, di terreni e di beni immobili, ma sprovvista di liquidità, impose la vendita dei capolavori della collezione di Strada Maggiore che si era unita a quella del palazzo di via Santo Stefano. Nel corso del Settecento si erano posati su quei capolavori gli occhi di illustri collezionisti italiani ed europei, tra i quali l’insaziabile Augusto III elettore di Sassonia e re di Polonia, ma la famiglia aveva declinato le allettanti offerte. I rovesci di fortuna dell’età napoleonica, l’indebolimento patrimoniale della famiglia senatoria e l’enorme influenza politica del nuovo acquirente indussero il giovane Francesco Giovanni Maria Sampieri, raggiunta la maggiore età, a cedere alle pressioni del Governo Italiano che aveva sede a Milano, andate a vuoto le offerte al podestà di Bologna e ai “Savj Municipali”. Le trattative con il ministro dell’Interno, il conte Luigi Vaccari, si conclusero l’8 gennaio 1811 con la stesura di due contratti del tutto simili sotto l’aspetto formale. Con il primo furono ceduti al “Governo Italiano” i sei capolavori che avevano reso illustre la collezione, ora a Milano nella Pinacoteca di Brera, descritti come: “il famosissimo quadro di San Pietro e San Paolo opera insigne di Guido Reni. Il bellissimo quadro in rame del ballo de piccioli figli opera celebre dell’Albano. Li tre preziosissimi quadri dei Carracci, cioè l’Adultera d’Agostino, la Samaritana al pozzo d’Annibale, e Gesù Cristo con la Cananea di Ludovico, figure intere. Il celebre quadro d’Abramo che scaccia Agar col piccolo figlio piangendo, di Guercino, più di mezza figura al naturale”. Con il secondo furono alienati altri 129 dipinti, non certo di scarsa importanza se si considera che erano nuovamente presenti i medesimi artisti e che vi figurava, ad esempio, un capolavoro assoluto della storia dell’arte quale la Pietà firmata da Giovanni Bellini, ora tra le opere più importanti della Pinacoteca di Brera. Il nome dell’acquirente, tenuto segreto fino all’ultimo minuto, si rivelò quello dello stesso viceré d’Italia, il giovane Eugène de Beauharnais, figlio di Joséphine, la prima moglie di Napoleone. I dipinti del Beauharnais andarono incontro alle più avventurose peripezie: al crollo dell’impero napoleonico furono trasferiti a Monaco di Baviera dove il Beauharnais si ritirò con la moglie Augusta Amelia, figlia di Massimiliano I re della Baviera, assumendo il titolo di duca di Leuchtenberg; raggiunsero San Pietroburgo nel 1852; lasciarono la Russia appena in tempo prima della rivoluzione d’ottobre del 1917 e andarono dispersi in un’asta che si tenne a Stoccolma. Il loro riconoscimento sul mercato internazionale dell’arte è agevolato dalle trascrizioni incisorie realizzate a Monaco di Baviera da Johann Nepomuk Muxel e inserite nel catalogo della collezione Leuchtenberg dato alle stampe nel 1851.

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