Sua maestà il maiale

Il maiale, il più grande amico dell’uomo, non v’è dubbio, ha sempre sacrificato tutto se stesso donandosi completamente: testina, zampetti, coda, prosciutti nel pentolone del bollito misto; macellato, disossato, tritato, insaccato, pur sempre maiale.
E per noi, dall’estro opulento e sereno dei nostri cuochi, s’è trasformato in coppa, pancetta arrotolata, cotechini, salami, salsicce, zamponi, mortadelle. In mortadella rosata, lucida, alternando le scacchiere bianche di grasso al colore tenue dell’impasto, occhieggiando grani di pepe, esalando profumi eterei. Il produttore ‒ carne suina, sale e spezie ‒ pestava gli ingredienti nel mortarium: ecco l’ipotesi dell’origine latina del nome moderno del prodotto, mortadella.
Dalle nostre parti, quando al tavolo frugale ti offrono pane e una ftléṅna ed murtadèla (“una fettina di mortadella) significa ospitalità genuina, mai un modo veloce e sbrigativo per liberarsi.
Si organizzavano gare per il taglio della mortadella e si verificavano risultati strabilianti: fette intere di settanta centimetri di diametro, con lo spessore di un millimetro; le competizioni, singolari, si svolgevano in Carnevale.
Uno spettatore, estasiato per tanta abilità, alzando la fetta controluce, esclamò: Che mirâcuel! A s vadd San Lòcca! (“Che miracolo! Si vede San Luca!”). O bèla ‒ traguardò il salumiere ‒ Mé a n vadd che al Mlunzèl (“O bella, io non vedo che il Meloncello”, ovvero solo l’inizio dei portici).
La mortadella genuina attuale è di puro suino, anticamente un impasto anche con la leggenda che parla di carne di cavallo, di somarino, di bue. Tutte storie, per sviare l’attenzione verso il prodotto esclusivo della carne di maiale; non mancarono le proteste di avventori gabbati, d’impertinenti ladri che, dopo aver svaligiato un negozio di lardarôl (“salumiere”), affissero ad un gancio un biglietto con su scritto Adrôva pió·ninén e manc sumarén (“Adopera più maiale e meno somaro”).
Durante i mesi estivi le mortadelle si conservavano immerse nello strutto, in vasche rivestite di bianche piastrelle; il tondello di quercia scortecciato ‒ stagionato almeno un anno ‒ era il legno preferito per cuocerle, in assenza di fumo; come pure si preferiva il carbone di legna di faggio. Pane e mortadella, dicevamo, per leccarsi i baffi.

Il testo è tratto da: Alessandro Molinari Pradelli, Osterie e locande di Bologna. La grassa e la dotta in gloria della tavola: folclore, arte, musica e poesia nelle tradizioni contadine e gastronomiche della città felsinea, Roma, Newton Compton, 1980
Collocazione: 17. T. V. 75