Della Commedia sono rimasti numerosi testimoni manoscritti e già i lettori antichi si resero conto che essi recavano in qualche passo delle lezioni diverse. Così a partire dal Cinquecento si avviò la pratica di esaminare i codici disseminati nelle biblioteche italiane ed europee, per individuare le varianti testuali e cercare di ricostruire un testo il più possibile vicino a quello “originale”.
Un altro aspetto interessante della ricezione manoscritta della Commedia è la presenza di codici miniati. Tra i codici della Commedia presenti nella Biblioteca dell’Archiginnasio hanno una certa importanza due codici trecenteschi: A.321 e A.418.
Il primo è un codice membranaceo che presenta tre belle miniature in corrispondenza della pagina iniziale di ciascuna delle tre cantiche.
Il secondo è un codice cartaceo, preso in considerazione anche dagli studiosi più recenti della tradizione testuale della Commedia.
Entrambi i codici sono al centro di un interessante episodio di storia della filologia dantesca.
Nella prima metà dell’Ottocento, il conte Giacomo Malvasia consultò questi due codici e segnò le varianti testuali di ciascuno di essi sul margine di un’edizione moderna della Commedia, l’edizione Ciardetti del 1821: in inchiostro nero quelle tratte dal codice A.321; in inchiostro rosso quelle tratte dal codice A.418.
È una testimonianza del lavorio sul testo del poema dantesco che proseguirà nella biblioteche d’Europa per tutto l’Ottocento.
Questi tre pezzi provengono dal Fondo Venturoli. Il medico, bibliofilo e collezionista Matteo Venturoli (Bologna, 1775-1860) ebbe un forte legame con la Biblioteca dell’Archiginnasio, a cui decise di cedere nel 1847 il suo patrimonio librario di oltre 15.000 volumi, fra i quali molte edizioni rare e manoscritti miniati. Il manoscritto A.321 è contrassegnato dall’ex libris del conte Domenico Levera, come vari altri volumi della biblioteca Venturoli.
Filologia dantesca ai giorni nostri
Il lavoro filologico per “ricostruire” il testo della Commedia è reso difficilissimo dall’enorme numero di testimoni superstiti, oltre 800.
Per questo si elaborò a fine Ottocento la strategia di sottoporre a collazione il corpus dei testimoni esclusivamente su un certo numero di loci selecti: i passi che mostrano le oscillazioni più interessanti e produttive per la determinazione dei rapporti fra i codici.
Fu Michele Barbi a individuare circa 400 loci sull’esame dei quali si basa il lavoro avviato poi, pur con molte variazioni, per l’edizione critica del 1921 da Giuseppe Vandelli.
Nel dopoguerra Giorgio Petrocchi seguì una strada diversa: anziché selezionare i loci su cui condurre la collazione, procedette alla selezione dei codici da collazionare integralmente. Isolò così i manoscritti più antichi, risalenti a prima del 1355, individuando 27 codici, definiti “dell’antica vulgata” sulla base dei quali disegnò uno stemma.
Negli ultimi decenni si è tornati ad applicare con nuovi strumenti il principio dei loci selecti e su questa base Federico Sanguineti ha approntato una nuova edizione critica nel 2001. Sanguineti ha realizzato uno stemma che si riduce però, una volta eliminati i descripti, a soli 7 testimoni, di cui uno, l’Urbinate, viene ad occupare da solo una parte dello stemma bipartito.
Sul lavoro di Sanguineti, e in particolare sulla necessità di uscire dall’antica vulgata, si basano le ricerche di Paolo Trovato, ancora in corso e orientate verso una nuova edizione critica, attesa per il 2021.
Giorgio Inglese ha invece sottoposto a revisione l’edizione di Petrocchi sulla base degli studi nel frattempo maturati e ha scelto di affidarsi per la patina linguistica al manoscritto Trivulziano, il più antico tra quelli fiorentini.