Insegnare, intrattenere, convincere. Per ottenere tali risultati, i predicatori cercavano una comunicazione efficace. Dovendo rivolgersi a un pubblico variegato, i loro sermoni attingevano alle fonti più diverse (teologia, diritto e scienza, storie di santi e profezie, favole e racconti della vita quotidiana). Tutto poteva tornare utile a un sermone. Ai predicatori non sfuggì quindi la potenzialità espressiva e mnemonica della poesia volgare, ideale per una comunicazione orale. In Italia il fenomeno, già visibile nel Trecento, si impose nel Quattrocento.
Bernardino da Siena per spiegare le stigmate di san Francesco, trafitto dall’amore divino, inserisce in un sermone latino la lauda In foco l’amore me mise. Nel farlo, scrive che il testo in volgare serve a dischiudere meglio per gli ascoltatori la verità di quel prodigio.
La parte però del leone la fa la Commedia. Frate Anselmo Caccia, a fine Quattrocento, arricchisce spesso i suoi sermoni con versi di Dante, definito «divus vates». Tra questi, utilizza anche la rima Bologna/menzogna: «E ’l frate: Io udi’ già dire a Bologna, scilicet predicando, | del diavolo vizi assai, tra quali uddii | che l’è bugiardo e padre de menzogna».
La glossa è rivelatrice: la predicazione è considerata il primo canale di istruzione religiosa.
Versi di Dante e Petrarca abbondano nelle prediche del domenicano Gabriele da Barletta. Fuori d’Italia, il successo dei suoi sermoni pose un dilemma: cosa fare dei versi in italiano? Gli editori in Francia e Germania li tradussero in latino.
Sorprende invece trovare Dante in un sermone di ‘Gritsch’, frate minore tedesco di metà Quattrocento che cita e commenta – tutto in latino – i primi versi della preghiera a Maria («Vergine madre, figlia del tuo figlio…»).
Il suo Quadragesimale fu estremamente diffuso tanto da diventare, con 28 edizioni a stampa, un bestseller internazionale.
Grazie ai predicatori, frammenti della Commedia trovarono così il modo di varcare le Alpi e di essere adattati a un nuovo pubblico.