Mi ritorna alla mente quella mia stagione maldestra e fanatica, quando ogni tua parola mi faceva tremare, e io cercavo di affondare le giornate nella noia e nel buio del sangue, e coltivavo i miei vizi con una dolcezza mortale, come se ne potesse nascere un inesprimibile paradiso. Adesso, quel ricordo mi ferisce come un rimprovero pungente; come per una vocazione irrimediabilmente tradita.
[Francesco Arcangeli, Incanto della città, Bologna, Nuova Alfa, 1984, p. 143]
Quasi tre secoli innanzi il Caravaggio aveva definitivamente compromesso le certezze umanistiche, antropocentriche della civiltà rinascimentale con l’incidenza delle sue luci radenti; ma, essendo i tempi prematuri perché si desse la possibilità mentale d’un vero sole, il lume caravaggesco sembrava quello d’una negromantica lucerna, sostenuta da una mano perduta nelle tenebre del cosmo e che coraggiosamente esplorasse, da un cavernoso ritiro, gli spessori impenetrabili dei corpi e delle cose. Monet riprendeva l’antico tema, riassumendo le ricerche parziali che s’eran seguite, in quasi trecento anni, per la scoperta d’una luce più abbordabile; ma questa volta spalancando “veramente” una finestra, donde entrava, finalmente, il raggio d’un universo felice d’irrorare anche le ombre con l’improvviso d’una verità rivelata.
[Francesco Arcangeli, L’impressionismo a Venezia, «La Rassegna d’Italia», III, 10 (1948), p. 1027]
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