Per Arcangeli la pittura di Giorgio Morandi fu una vera e propria folgorazione, grazie alla mediazione di Roberto Longhi e di altri amici comuni. Arcangeli dedica molti saggi all’opera morandiana fin dagli anni ’40 e una fondamentale travagliata monografia, alla quale lavora fin dalla metà degli anni ’50 ma che verrà pubblicata solo nel 1964, dopo la morte del pittore bolognese.

Si tratta di un libro stratificato e ibrido, che unisce critica d’arte e biografia, con l’ambizione di riuscire a cogliere la matrice unitaria dell’arte di Morandi, perché – puntualizza Arcangeli – non è possibile separare uomo e pittore: «entrambi riaffermano quotidianamente, nella vita e nell’arte, il senso d’un limite spontaneamente accettato, della profondità, felicità e tristezza di questo limite». Contro lo stereotipo del pittore “eremita”, Arcangeli vuole dimostrare quanto l’estrema solitudine del pittore non sia una fuga dal mondo ma un modo per preservare la propria sensibilità percettiva nei confronti di un mondo che stava precipitando verso una rovina inarrestabile (le due guerre mondiali e il regime fascista).

Le nature morte e i paesaggi appenninici di Grizzana sono i correlativi di una realtà in progressivo disfacimento (qui individuiamo i legami con la poesia di Eliot e Montale), nella quale sopravvivono piccole isole di senso e di umanità, come una leggera variazione dell’ombra di una bottiglia posata su un tavolo o una particolare tonalità di verde che accende la possibilità di un contatto con la natura tra memoria e quotidianità. Le nature morte fanno rivivere i mondi di un’Italia passata ma li proiettano nella dimensione di un tempo interiore moderno: «i suoi oggetti si fanno chiari, impassibili, concreti come urne dove sian bruciati per sempre i sentimenti; inesistenti ormai, per tanti, per i più forse: i nostri sentimenti di uomini moderni». I dipinti di Morandi testimoniano il limite invalicabile dell’essere umano e, senza eluderlo, lo mostrano davanti ai nostri occhi in una immobilità di pacata e sofferenza.

Probabilmente è stata proprio la capacità di Arcangeli di indagare l’anima del pittore erodendo la superficie rassicurante dei suoi quadri ad aver spaventato Morandi, quasi preso alla sprovvista dall’eccessiva intimità di quelle parole, come se lo storico dell’arte lo avesse smascherato, rivelandogli qualcosa di inatteso. Infatti, Arcangeli si spinge molto al di là dell’analisi storico-artistica e individua in Morandi il capostipite appartato dell’informale italiano (sviluppato poi da Morlotti, Mandelli, Romiti e Vacchi): «Per intuire la vita delle antiche dimore, il germogliar disperato di pochi fiori, Morandi non avrebbe potuto inventare qualche cosa di molto diverso, in pittura, di questo sobrio triste casalingo informel».