Sebastiano Filippi è, per allora, un personaggio unico, non dirò in Ferrara, ma nella pittura italiana del tempo. Il suo “gusto velato” non risolve la contraddizione tra i principî ch’egli volle tenere in bilancia: la forma tosco-romana, il colore dei veneti. Non tanto credo, perché non fosse abbastanza grande (risolse forse quei contrasti il Tintoretto?); ma perché i tempi volgevan contro le imprese difficili, per cui è necessaria, dietro, un’idea, un dominio, una concordia. Forse poteva dargli questo la Corte Estense, con quell’Alfonso così ostinato, assurdo, quelle principesse fragili come Eleonora, perfide come Lucrezia, balzane come Marfisa? O quel grande Torquato Tasso, ma vittima stralunata al punto da farsi chiudere a S. Anna?
[Francesco Arcangeli, Il Bastianino, Ferrara, Cassa di Risparmio di Ferrara, 1963, p. 37]
Nel suo disperato incontro con Michelangelo e con Tiziano mi par dunque che il Bastianino si ponga in un luogo di ammirazione fanatica, ma di romantica distruzione, della grande forma plastica italiana; per approdare a un suo personalissimo “rien est materiel dans l’espace”. Ma in lui, come in Rosso, quello smaterializzarsi coincide con la varietà del sentimento, dello “stato dell’animo”. Egli è il capostipite della tradizione, intralciata ma ininterrotta, dei “sognatori di padanìa”.
[Francesco Arcangeli, Il Bastianino, Ferrara, Cassa di Risparmio di Ferrara, 1963, p. 50 ]
Torquato Tasso, Sonetto per Lucrezia d’Este
Ne gli anni acerbi tuoi purpurea rosa
sembravi tu, ch’a i rai tepidi, a l’ora
non apre ‘l sen, ma nel suo verde ancora
verginella s’asconde e vergognosa;
o più tosto parei, che mortal cosa
non s’assomiglia a te, celeste aurora
che le campagne imperla e i monti indora
lucida in ciel sereno e rugiadosa.
Or la men verde età nulla a te toglie;
né te, benché negletta, in manto adorno
giovinetta beltà vince o pareggia.
Così più vago è ‘l fior poi che le foglie
spiega odorate, e ‘l sol nel mezzo giorno
via più che nel mattin luce e fiammeggia.
[Francesco Arcangeli, Il Bastianino, Ferrara, Cassa di Risparmio di Ferrara, 1963, p. 35 et al.]
Che cosa dire di questo celebrato Giudizio, e del suo michelangiolismo? Certo il Bastianino vi affronta con alto, tenace impegno interiore il tema severo già così prepotentemente occupato da Michelangelo. Inutile però volerlo iscrivere a una gara sulla terribilità, per la quale, evidentemente, l’ancor giovane ferrarese non aveva accumulato abbastanza follia; meglio avvistare la sua ispirazione in quell’ombrosità insinuante, in quel lento ribollire di corpi grevi, in quell’estenuare la stessa potenza corporea d’un velo malsano. Il senso tremendo dell’immensa caterva michelangiolesca si è trasferito, nello spazio stretto e alto, in un ambiguo intimismo; come se le vicende estreme dell’umanità accadessero in un’accaldata bruna vicenda quasi di “camera a gas”.
[Francesco Arcangeli, Il Bastianino, Ferrara, Cassa di Risparmio di Ferrara, 1963, p. 33]
Son gli anni, anche, dell’ospedale di S. Anna per il Tasso. Inutile, perché insolubile, porre la questione dei rapporti concreti fra il poeta e il pittore; si conoscevano certo […]. Interessa indagare, se mai, se ci fu un concreto parallelismo, un’effettiva confluenza di ispirazione nella loro opera. Credo di poter rispondere, in qualche modo, positivamente. […] Una strana ossessione è anche nella contemporanea S. Cecilia del Bastianino; anch’essa, dal suo carcere terreno, corporeo, pare ascoltare musiche che non son certo quelle del famoso concerto delle Dame Estensi. […] Qua paiono anzi risuonare “strepiti di cose inanimate che da le mani de gli uomini son mosse”, e gli angeli ricordan troppo quei versi:
e mille larve a me d’intorno erranti veggio con dubbio cor che mai non dorme.
[Francesco Arcangeli, Il Bastianino, Ferrara, Cassa di Risparmio di Ferrara, 1963, pp. 43-44 ]
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