Le bottiglie, un tempo impenetrabili, imporose, ora si son velate come d’una dolce, pallida cera, e i valori plastici si attenuano in lente variazioni tonali. La fruttiera è ottenuta per soavi, e appena spessi, passaggi di “valore”, mentre il disegno, attenuato e precisato solo a tratti, non isola più superbamente ogni corpo, ma lo definisce con taciti e poco insistiti contorni. In tutto è una pace, un timbro di miele e d’oro pallido; e, nel muro, la vecchia fenditura della cassetta “metafisica” è, ora, un’impronta delicata su un grande foglio teso a sfondo, appena appena rilevata dalla luce.
[Francesco Arcangeli, Giorgio Morandi, Milano, Edizioni del Milione, 1964, p. 145]
Morandi, più che ultimo per anagrafe della grande generazione dei Picasso e dei Braque, dei Carrà e dei De Chirico, è primo, o fra i primi, d’una generazione di solitari esploratori d’ignoto: egli è con Soutine, con Tobey, con Fautrier, con Eliot, con Montale […] Diverse saran le poetiche, figurative o non figurative; ma il senso della vita, l’indagine umilissima ha il valore universale degli angoli ineliminabili dell’esistenza, dell’hic et nunc, d’un pugno di terra o d’una tazza smessa, d’un misero nudo e d’un osso di seppia, d’una galassia o d’una città lontana, o d’una “terra desolata”, in questi uomini è analogo.
[Francesco Arcangeli, Giorgio Morandi, Milano, Edizioni del Milione, 1964, p. 181]
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
[Eugenio Montale, Ossi di seppia, Einaudi, 1942, p. 45]
La sepoltura dei morti
Che radici allignano, che rami crescono
Su queste macerie? Figlio dell’uomo,
tu non lo puoi dire o indovinare, ché conosci solo
Un ammasso di frante immagini, su cui batte il sole,
E l’albero secco non dà riparo, e il grillo nessun conforto,
E l’arido sasso non risuona d’acque. Solo
C’è ombra sotto questa rupe rossa,
(Vieni all’ombra della rupe rossa)
E ti mostrerò qualcosa di diverso dall’altro
La tua ombra che dal mattino a lunghi passi ti cammina dietro
O la tua ombra che a sera s’alza ad incontrarti;
In un pungo di polvere ti mostrerò la paura.
[T. S. Eliot, Poesie, con testo a fronte, traduzione e prefazione di Luigi Berti, 5 ed., Parma, Guanda, 1955, pp. 57-59]
E chi ha avuto, chi avrà come lui, il coraggio di adunare gli oggetti della “Grande natura morta scura”, in modo che paia di essere entro quella spenta, funebre cortina di tenebre, dove la luce lavora ancora soltanto come un ricordo soffocato della vita remota, ormai irraggiungibile? Non conosco altro che possa ricordarmene se non questi vecchi versi: “Sola nel mondo eterna a cui si volve / ogni creata cosa, / in te, morte, si posa / nostra ignuda natura; / lieta no, ma sicura / dall’antico dolor. Profonda notte / nella confusa mente / il pensier grave oscura”. Sono i primi versi del “Coro di morti nello studio di Federico Ruysch”, di Leopardi.
[Natura ed espressione nell’arte bolognese-emiliana. Bologna, Palazzo dell’Archiginnasio, 12 settembre-22 novembre 1970, catalogo critico di Francesco Arcangeli, Bologna, Alfa, 1970, pp. 294-295, p. 62]
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