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Si dice che in Africa gli schiavi non avessero ombra sotto il sole inclemente del mezzogiorno.

Questa mostra intende restituire l’ombra agli uomini, alle donne, ai bambini e alle bambine che furono catturati e trasportati con la violenza al di là dell’Oceano Atlantico. E che – come ricorda uno degli ultimi schiavi americani, Cudjo Lewis – guardarono, guardarono, guardarono, e videro solo l’acqua. Finché al termine di un lungo viaggio a bordo di prigioni galleggianti furono scaraventati e dispersi in un nuovo universo, totalmente sconosciuto.

Si propone di disegnare il contesto delle storie dimenticate di uomini e donne che a milioni (tra gli 11 e i 13 secondo le stime degli storici) furono vittime di un complesso e violento sistema di commerci, complicità e alleanze tra potentati e aristocrazie africane da un lato, e stati, mercanti, banchieri, piantatori, capitani europei e americani dall’altro.

Cerca inoltre di ridare voce, corpo e identità a uomini e donne che alla violenza della deportazione del Middle Passage risposero facendosi protagonisti della storia della tratta schiavista: resistendo, ribellandosi, fuggendo, negoziando, costruendo legami famigliari e comunitari, inventando nuovi linguaggi, culture, forme d’arte, battendosi per la sua abolizione.

La mostra si sviluppa come un viaggio: nel tempo e nello spazio.

Nel tempo perché ripercorre i quattro secoli che dalla fine del Quattrocento alla fine dell’Ottocento segnarono la nascita, lo sviluppo e poi l’abolizione della tratta transatlantica come commercio legale e costitutivo dell’emergente sistema capitalistico.

Nello spazio perché la tratta degli schiavi ha annodato in un ordine globale le storie delle due sponde dell’Atlantico: facendone uno spazio di interscambio di merci, tra cui quella di esseri umani considerati alla stregua di un “bene mobile” soggetto a proprietà privata, e di idee e costrutti culturali. Il concetto di razza emerge in connessione con la tratta degli schiavi e servirà a giustificare la schiavitù di esseri considerati inferiori e a erigere un ordine gerarchico basato sulle categorie di bianco e nero.

Nonostante la schiavitù sia stata legalmente abolita e sia oggi sanzionata dal diritto internazionale, le sue conseguenze continuano ad operare e riprodursi in relazioni di dominio date troppo spesso per scontate e naturali, e che alimentano forme più o meno esplicite di razzismo strutturale e quotidiano. L’esplosione del movimento Black Lives Matter ce l’ha prepotentemente ricordato. Studiare e capire le origini, la storia e le eredità contemporanee della tratta transatlantica degli schiavi è l’ambizione di questa mostra.

 

INTERVISTA A CRISTINA ERCOLESSI, CURATRICE DELLA MOSTRA
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Fer noir Bambara
ferro patinato h 15 cm, probabilmente inizi XIX secolo, Mali
Collezione Augusto Panini

 

 

La statuetta a fianco, in ferro forgiato detta fer noir appartenente alla collezione privata di Augusto Panini, rappresenta uno schiavo incatenato proveniente dal villaggio di Bougouni nella regione di Sikasso nel sud del Mali. Si tratta probabilmente di un oggetto legato al culto degli antenati: un uomo mandingo destinato alla tratta degli schiavi tra la costa di Guinea e le Americhe, triste retaggio dei secoli XVII-XVIII quando oltre cinque milioni di africani furono ridotti in schiavitù. Il ricordo di questo tragico periodo è molto vivo nelle popolazioni che subirono questo abominio, in Benin, Nigeria, Ghana, Mali e Senegal.

 

 

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Citazioni di testi originali risalenti ai secoli XVIII-XX possono contenere termini e parole in uso al tempo e che ora sono considerate inaccettabili e offensive.
In anni recenti si è aperta una discussione tra gli storici, in particolare anglofoni, sull’uso dei termini slave e enslaved person. Si ritiene che il sostantivo slave (schiavo/a) oscuri l’umanità della persona soggetta a schiavitù, mentre l’aggettivo enslaved (schiavizzato/a) vuole sottolineare che lo stato di schiavitù è imposto e non intrinseco all’identità della persona. Questa distinzione non è ancora entrata nell’uso comune dell’italiano e, pur consapevoli della differenza linguistica, i due termini sono stati utilizzati in modo interscambiabile nei testi che seguono.
Le immagini storiche sono quasi sempre quadri, stampe, disegni o illustrazioni prodotti in epoca schiavista e spesso da autori che non avevano una conoscenza diretta di quello che rappresentavano. Riflettono pertanto i pregiudizi degli autori europei o americani, il loro immaginario esotizzante e le loro idealizzazioni romantiche. Raramente sono rappresentazioni della realtà. Per questo, quando non sono apertamente razzisti, proiettano sentimenti paternalisti nei confronti degli schiavi africani.