Gorée l’isola degli schiavi

La storia di Gorée

L’isola di Gorée – posta a 3,5 km al largo della costa del Senegal – ha svolto un ruolo molto importante nella storia africana, perché la sua posizione la collocava al contempo in mezzo alle rotte atlantiche e vicina al continente, favorendo i commerci con i regni costieri.

L’isola di Gorée in una stampa antica
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A partire dal XV secolo, gli europei iniziarono a esplorare la costa occidentale africana e a crearvi avamposti commerciali, innescando il fenomeno che lo storico portoghese Magalhães Godinho ha definito la vittoria della caravella sulla carovana: un graduale spostamento delle rotte commerciali dal deserto del Sahara – attraversato dalle carovane che collegavano l’Africa occidentale al Mediterraneo – alle regioni costiere. Come osserva lo storico senegalese Boubacar Barry, ciò provocò una frammentazione politica che portò all’emergere di numerosi stati costieri africani come Kajjor, Waalo e Djoloof.

I portoghesi arrivarono a Gorée nel 1444 e vi rimasero fino al 1621, quando vennero sconfitti dagli olandesi che la occuparono (salvo una breve parentesi britannica) fino al 1677, anno in cui la Francia ne assunse il controllo.

L’isola serviva come luogo di sosta e transito per gli africani schiavizzati prima di essere caricati sulle navi dirette verso le Americhe: per ospitarli, vi furono costruiti diversi edifici, tra i quali quello che è divenuto oggi il museo della Maison des Esclaves, la casa degli schiavi.

L’illustratore F. B. Spilsbury, nel suo Account of a voyage to the Western Coast of Africa (London, Richard Phillips, 1807, p. 4) scrive:

«La ricchezza degli abitanti consiste di schiavi […] ogni casa ha un deposito di schiavi, con capanne per loro; tra le schiave sono presenti molte figure eleganti  […]. Gli schiavi di entrambi i sessi sono nudi, tranne il pezzo di stoffa che passa intorno ai loro lombi. Le femmine fanno tutte le fatiche, come battere il mais, ecc. portando i figli alle loro spalle».

Mappa di Gorée, 1745
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Signare


Dell’occupazione europea rimane sull’isola un’importante eredità culturale: da un lato gli edifici in pietra, ancora oggi visibili, adibiti sia a residenze per i coloni sia a magazzini per gli schiavi; dall’altro lato, un patrimonio immateriale rappresentato dalla diffusione di una cultura in parte africana e in parte europea, esemplificata dalla figura delle Signare, termine ottenuto storpiando la parola portoghese senhora, signora. Figlie di donne africane ridotte in schiavitù e padri europei, le Signare ereditavano da questi ultimi case e ricchezze, provenienti principalmente dalla tratta degli schiavi.

L’abate David Boilat, di padre francese e madre signare, uno dei primi scrittori senegalesi ad aver descritto la storia e la società del suo tempo nel suo libro Esquisses Sénégalaises (1853), rappresentò l’arrivo sull’isola di un carico di schiavi a bordo di una nave con queste parole:

«Il 2 luglio 1846, 250 neri di entrambi i sessi catturati nel Golfo di Guinea furono sbarcati dal bordo di una nave negriera a tre alberi, chiamata Elizea. Tutta la città era presente a questo spettacolo commovente. Che orrore, vedere 250 scheletri che camminano […] riuscendo a malapena a trascinarsi! Le signare versavano lacrime amare».

Gorée luogo di memoria

Il Senegal venne interessato dalla tratta transatlantica tra il 1451 e il 1867, ma l’effettivo ruolo dell’isola nella tratta è dibattuto dagli storici, che non sono concordi sul numero di schiavi che vi sono passati. Tuttavia, Gorée è oggi riconosciuta come uno dei luoghi della memoria della tratta atlantica più noti al mondo, grazie alla sua iscrizione nel 1978 nella lista dei siti patrimonio dell’umanità dell’UNESCO e alla presenza della Maison des Esclaves, con la sua porta del non ritorno. Si tratta di una porta che gli schiavi dovevano attraversare per salire sulle navi e che nell’immaginazione popolare è andata a rappresentare il momento in cui gli schiavi hanno toccato il suolo africano per l’ultima volta.

La tratta degli schiavi ha dato vita a una delle più grandi comunità diasporiche del mondo, con gruppi sparsi su tutto il pianeta, per molti dei quali l’Africa occidentale e centrale rappresenta ancora oggi la terra di origine.

Molti afroamericani e afrocaraibici hanno da tempo iniziato a manifestare interesse per la ricerca delle proprie origini, compiendo al contrario quel primo viaggio attraverso l’Atlantico fatto dai loro antenati: i turisti della memoria ne ripercorrono le rotte, alla ricerca di un’origine perduta e spesso mitizzata. I luoghi fisici di questo viaggio di ritorno a casa, infatti, non sono più gli stessi di quelli del passato, e assumono pertanto un valore simbolico.

Con la sua Maison des Esclaves e la porta del non ritorno, Gorée è divenuta dalla fine degli anni Settanta il simbolo mondiale della tratta degli schiavi, anche grazie alla narrazione realizzata dal primo curatore del museo, Joseph N’Diaye, e al riconoscimento quale sito patrimonio mondiale dell’umanità dell’UNESCO.

Robert Gaffiot, colonnello della fanteria coloniale, pubblicò nel 1933 il suo libro dal titolo Gorée Capitale déchue, in cui descrive il magazzino meglio conosciuto come la Maison des Esclaves: qui, al piano terra, esistevano celle lunghe e strette, in cui i prigionieri erano stipati e, molto spesso, incatenati. Le persone catturate venivano rinchiuse in questi luoghi angusti il tempo necessario per riempire le navi schiaviste pronte a partire verso le Americhe.

Il ruolo internazionale di Gorée quale simbolo universale della sofferenza, dell’ingiustizia e dello sfruttamento economico determinato dalla tratta atlantica è riconosciuto e alimentato dalle visite fatte nel corso degli anni da diversi personaggi della politica, come Bill Clinton, George W. Bush, Nelson Mandela, Jacques Chirac e Barack Obama; del mondo religioso, come papa Giovanni Paolo II; della musica, tra cui James Brown e i Jackson Five; dello sport, come Muhammad Ali e Pelé; e del cinema, come Spike Lee e Danny Glover.

Non è una forma di turismo, quanto piuttosto un pellegrinaggio verso un luogo sacro.

«Il terrore ci afferra non appena entriamo. […] In questi lugubri vicoli ciechi, le lamentele dei prigionieri erano coperte solo dal rumore incessante della risacca dell’oceano sui ciottoli nerastri, e Dio solo sa quanti cadaveri passarono per le porte […] che si affacciano sul mare per essere consegnati agli squali».
Robert Gaffiot