La vita sociale delle piantagioni

Abitazioni di schiavi a Barbados
John A. Waller, A Voyage in the West Indies, London, 1820
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Comunità e identità

Le esperienze traumatiche della tratta diedero vita nelle Americhe a una “cultura della schiavitù” che mescolava elementi delle culture africane d’origine e dei luoghi di arrivo, come il Cristianesimo. Soprattutto nell’universo delle piantagioni, queste culture “ibride” contribuirono a forgiare sentimenti comunitari che alimentavano solidarietà, circolazione di notizie e aspettative di liberazione.

La famiglia giocava un ruolo cruciale nella vita quotidiana delle persone schiavizzate. Matrimoni e funerali erano celebrati in modo non ufficiale con riti che spesso riprendevano elementi culturali africani e che servivano a rafforzare i legami simbolici, a fronte di un contesto in cui le relazioni tra marito e moglie e tra genitori e figli potevano essere violentemente distrutte in qualsiasi momento.

Le donne erano le più vulnerabili, esposte alla violenza sessuale, a gravidanze non desiderate, alla perdita di figli che venivano venduti in tenera età.

Cerimonia funebre per la morte di un bambino, Venezuela, 1826
Alcide Dessalines d’Orbigny, Voyage pittoresque dans les deux Amériques, Paris, 1836, facing p. 51
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Funerale di un bambino schiavo

«(…) il padre seppellì (con il bambino) un piccolo arco e delle frecce, e una borsetta con del mais secco, una canoa in miniatura, lunga circa un piede, con un minuscolo remo, con la quale disse avrebbe attraversato l’oceano fino al suo paese, un piccolo bastone con una punta di ferro, ben affilata, e un pezzo di mussola bianca con diverse figure curiose e strane dipinte in blu e rosso, grazie alle quali, disse, i suoi parenti e compaesani avrebbero saputo che il bambino era suo figlio e l’avrebbero accolto di conseguenza al suo arrivo tra loro.»
Testimonianza di Charles Ball, schiavo nel Maryland occidentale, 1858.
Fonte: Digital History

Cerimonia nuziale nel sud degli Stati Uniti
Cerimonia nuziale nel sud degli Stati Uniti
L’incisione mostra una cerimonia nuziale chiamata “il salto della scopa”. Probabilmente derivata da un rito del regno Asante (attuale Ghana), consisteva nell’agitare le scope sopra le teste degli sposi per scacciare gli spiriti. Dopo essersi scambiati la promessa, gli sposi saltavano una scopa tenendosi per mano
Emily Clemens Pearson [pseudo. Pocahontas], Cousin Francks Household, or, Scenes in the Old Dominion, Boston, 1853
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Pregare e guarire

Uno dei fattori più potenti dell’identità culturale degli schiavi è stata la religione, accompagnata da una varietà di credenze e pratiche spirituali, come il ricorso alla divinazione e alla medicina tradizionale africana.

Gran parte delle religioni elaborate in schiavitù e tuttora vitali – come il Voodoo ad Haiti o il Candomblé in Brasile – presentano una miscela complessa di elementi, riti, nomi, spiriti e santi, riconducibili sia a diverse parti dell’Africa sia a una reinterpretazione della religione cattolica-cristiana.

La ricerca più recente ha evidenziato l’importanza di figure, soprattutto femminili, che nelle piantagioni operavano nella sfera spirituale e in quella della cura delle persone sulla base di pratiche mediche e rituali di origine africana realizzate con l’uso di erbe locali.

La litografia mostra una divinatrice impegnata in attività rituali e nella preparazione di un infuso di erbe destinato alla cura di un bambino. L’autore, Pierre Jacques Benoit, riferisce che le anziane che praticavano la medicina tradizionale erano considerate oracoli e chiamate Mama Snekie (Madre dei serpenti) o Water Mama (Madre dell’acqua), una figura largamente diffusa nel continente africano, associata a cura e guarigione e spesso rappresentata come una sirena.

Il noto abolizionista nero ed ex schiavo Frederick Douglass ricorda nel suo libro My Bondage and My Freedom (1855):

«Un osservatore attento avrebbe potuto capire che nel nostro canto ripetuto ‘oh Canaan, dolce Canaan, sono diretto alla terra di Canaan’, c’era qualcosa di più della speranza di andare in Paradiso. Noi volevamo raggiungere il Nord, e il Nord era la nostra Canaan.»

Allo stesso modo il riferimento costante al fiume Giordano, come nel testo della canzone di seguito, indicava l’aspirazione alla fuga e all’attraversamento di fiumi come il Mississippi o l’Ohio che separavano il Sud schiavista dal Nord degli Stati Uniti.

Musica e danza

Nel tempo si ebbe un importante sviluppo di congregazioni nere, guidate da predicatori di discendenza africana, e caratterizzate da stili culturali propri. Interpretazioni e metafore bibliche diventavano strumenti potenti per rappresentare la condizione di schiavitù e l’aspirazione alla libertà, andando a creare nuovi generi musicali come lo spiritual e il gospel.

Danza Jombo, originaria delle comunità nere del sudest del Brasile
Augustus Earle (1793-1838)
National Library of Australia, Canberra
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Privati dell’accesso all’istruzione e quindi alla lettura, gli schiavi ricorrevano a un ampio repertorio di tradizione orale, come già del resto in Africa.
La musica giocava un ruolo fondamentale. Accanto ai canti di ispirazione religiosa esistevano canzoni di lavoro, canzoni che satireggiavano padroni e sorveglianti, e le cosiddette sorrow songs, che lamentavano le tristi e insopportabili condizioni della schiavitù.

Molti degli strumenti musicali associati alla musica afroamericana, inclusi il banjo e i tamburi, derivano da strumenti africani; egualmente alcune forme musicali, come la struttura a “botta e risposta” (call and response), tipica anche della musica che accompagna la capoeira brasiliana, riflettono tradizioni musicali africane.
Nelle piantagioni nordamericane, gli schiavi erano esposti alla predicazione di varie denominazioni protestanti e alla lettura della Bibbia, organizzate talvolta dagli stessi piantatori. Pratiche religiose autonome erano vietate dai padroni e quindi tenute celate ai loro occhi, per esempio mantenendo piccoli altari nascosti nelle capanne.

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