Un tema quasi assente nell’Ottocento
In epoca liberale, il tema della tratta atlantica raramente entrò nelle pagine scolastiche italiane. Il baricentro della storia insegnata infatti tra Otto e Novecento era tutto centrato sulla Nazione: i suoi illustri antecedenti romani, i prodromi dell’unità nazionale, il Risorgimento.
Interessante quindi trovare la citazione della schiavitù americana in un problema aritmetico, un’edizione degli anni ottanta dell’Ottocento che probabilmente ripubblicava un testo già edito in precedenza (prima della Guerra di secessione?); qui l’apparentemente neutra contabilità dei costi riduceva il rapporto di lavoro schiavista della piantagione americana all’ottica economicista delle spese di mantenimento dal punto di vista del proprietario di schiavi.
L’imperalismo fascista antischiavista?
Negli anni del fascismo, in occasione della conquista dell’Etiopia, il tema della schiavitù nel Corno d’Africa emerse in maniera prepotente.
Il regime infatti, alla ricerca di pretesti attorno a cui organizzare la propaganda, sostenne di agire per liberare gli schiavi ancora esistenti nel regime governato dal negus Hailé Selassié.
In realtà la schiavitù in Etiopia era stata giuridicamente abolita nel 1923 quando lo Stato entrò a far parte della Società delle Nazioni, anche se nella realtà il fenomeno era ancora presente e il suo sradicamento risultava difficoltoso. Ma soprattutto le reali intenzioni dell’Italia fascista non erano certo indirizzate alla liberazione degli schiavi ancora esistenti nel paese, bensì a soggiogare un territorio indipendente per sfruttarne le ricchezze, rivendicare il destino imperiale della Roma fascista in politica interna e il ruolo di grande potenza in politica estera.
La scuola fascista alla conquista dell’Etiopia
Nella scuola il racconto paternalistico dei bravi soldati italiani che combattevano una guerra per liberare gli schiavi africani ebbe larghissima diffusione. Questa favola edificante che veniva trasmessa in ogni forma (dai libri di testo alle copertine dei quaderni alle figurine) indusse i giovani italiani a costruire un’immagine positiva di sé e della propria nazione, una falsa coscienza generosa che rimarrà radicata anche nel dopoguerra: l’idea di essere partecipi di un colonialismo buono e civilizzatore che si contrapponeva al colonialismo predatorio delle altre potenze, un’immagine immacolata (ma falsa) di italiani liberatori di schiavi.
Nelle scuole si insegna il razzismo
Nell’opinione delle gerarchie fasciste la considerazione per le popolazioni etiopiche era talmente bassa che a conquista avvenuta fu varato un apparato di leggi razziste per costruire una società coloniale segregata, fondando la scelta sull’asserita inferiorità “razziale” delle popolazioni africane. Anche nei testi scolastici, come quello da cui è tratto il brano qui di seguito, i principi del razzismo venivano insegnati come elementi di “etica civile”.
«La difesa della razza» antischiavista?
Tra il 1942 e il 1943 si arriva al paradosso di leggere addirittura su «La difesa della razza», la rivista ufficiale del razzismo fascista immancabile nelle biblioteche scolastiche, vari articoli che denunciano lo “schiavismo inglese” della tratta come crudele e poco rispettoso, presentando invece il colonialismo fascista come portatore di un razzismo e di uno sfruttamento “giusto” a confronto con quello disumano, “incivile e giudaizzato” del nemico anglosassone.
Il secondo dopoguerra ancora italocentrico
Nei primi anni dopo la Seconda guerra mondiale i riferimenti nei libri di testo alla tratta atlantica rimasero sporadici. L’italocentrismo dominava e gli sguardi al resto del mondo erano occasionali.
Nei testi della scuola elementare troviamo ad esempio brani sulla figura di Lincoln collegata alla cancellazione della schiavitù negli Stati Uniti, oppure descrizioni ingenue della convivenza delle “razze” nei territori del continente americano.
Attorno al Sessantotto
Fu solo negli anni Sessanta, come effetto dell’attenzione suscitata dalle lotte per i diritti civili degli afroamericani, che anche la storia della tratta fece il suo ingresso nei libri di storia e di geografia e nelle antologie letterarie più progressiste e aperte ad una visione globale della storia.
Nella maggior parte dei casi però l’attenzione alla storia della tratta e all’emancipazione degli schiavi afroamericani non si accompagnava ad una critica dell’imperialismo italiano e del razzismo autoctono.
Il sussidiario firmato da Alberto Manzi
Emblematiche in questo senso sono le pagine del sussidiario di Alberto Manzi (in adozione tra il 1966 e il 1974). Uno a fianco all’altro si potevano trovare l’esaltazione di Abramo Lincoln come liberatore degli schiavi, la difesa del colonialismo italiano celebrato come esportatore della civiltà in Africa e l’esaltazione di missionari ed esploratori, descritti come predicatori di vangelo e apostoli della libertà.
Ormai non era più possibile sostenere come in epoca fascista che la conquista coloniale fosse finalizzata a portare la libertà, ma era ancora normale riferirsi ad icone antischiaviste cresciute in epoca precoloniale. Come Romolo Gessi, che era avversario dei trafficanti arabi di schiavi negli ultimi decenni dell’Ottocento, ma con l’intento di impiantare lo sfruttamento coloniale di quegli stessi territori.
Gli anni Settanta: la tratta trova spazio
Fu soprattutto negli anni Settanta che si trovarono spazio trattazioni più regolari e consapevoli, in seguito alle battaglie culturali del Sessantotto e alla messa in discussione dei contenuti tradizionali dell’insegnamento.
Ad esempio questi testi per le quinte descrivono brevemente la tratta con stili diversi, enfatico il primo che invita alla ricerca e all’immedesimazione, distaccato e attento alla logica economica il secondo. L’uso del termine “negro”, che oggi appare carico di intenzionalità razziste, all’epoca in Italia non veniva ancora percepito come portatore di tali accenti.
Oggi nei manuali di storia
Oggi (da un sondaggio sui testi per le scuole secondarie di I grado) il tema è trattato regolarmente, anche se taluni aspetti rimangono trascurati: i riferimenti alla storia pregressa dell’Africa e alle altre rotte schiaviste, l’apporto culturale che le persone di origine africana hanno prodotto nel continente americano, le rivolte, i tentativi di fuga, i cosiddetti marronages.
Probabilmente per trattare con maggiore completezza un tema come questo servirebbe una crescita della sua rilevanza all’interno del programma di studi (accanto ad esempio alla storia del colonialismo, in particolare di quello italiano). Una prospettiva più matura di world history potrebbe fare compiere un passo in avanti ai curricoli delle nostre scuole per proporre una storia che tenga il passo con la presenza di allievi e allieve di origine straniera nelle nostre classi.