Giochi di pazienza in Archiginnasio

«È questo filo, tenue e ambiguo, ciò che giunge a due storici e ricercatori – e siamo arrivati agli anni ’70 del XX secolo – Adriano Prosperi e Carlo Ginzburg, che fanno del Beneficio di Cristo l’oggetto di un seminario aperto di ricerca coi propri studenti e di una pubblicazione, Giochi di pazienza».
Wu Ming 3-Wu Ming 2, Il diritto all’abbondanza, «l’Unità», 25 settembre 2002, p. 27

Per esemplificare l’oscillante movimento di inabissamento e affioramento a cui sono sottoposte le “buone” storie – che scompaiono per poi donarsi di nuovo al pubblico, senza mai “consumarsi” e anzi sempre rinnovando e accrescendo il proprio fascino – Wu Ming 2 e Wu Ming 3, nell’articolo sopra citato, scelgono l’avventurosa vicenda del Beneficio di Cristo, che loro stessi pochi anni prima hanno contribuito a rendere di nuovo un «libro popolare» grazie a un «testo di diffusione di massa» come Q. Nel fare questo registrano – implicitamente indicando una fonte fondamentale per il romanzo – il precedente momento di riemersione del testo cinquecentesco, vale a dire la pubblicazione di un saggio che fonde il rigore storico-filologico con il fascino affabulatorio di una quête in cui quello stesso libro è l’oggetto magico da rinvenire: Giochi di pazienza. Un seminario sul Beneficio di Cristo di Carlo Ginzburg e Adriano Prosperi (Torino, Einaudi, 1975).
Ipotesto imprescindibile per la scrittura di Q (insieme ai Costituti di don Pietro Manelfi pubblicati a cura dello stesso Ginzburg nel 1970) il lavoro dei due storici – in una ideale chiusura del cerchio Prosperi recensirà il romanzo sul «Corriere della sera» con l’articolo Il giallo dell’eretico che voleva convertire il Papa, uscito l’11 aprile 1999 – ricostruisce la genesi del Beneficio di Cristo, rintracciandone le fonti e le influenze ma anche individuando le mutazioni occorse al testo nelle diverse versioni in cui vide la luce, in particolare nel passaggio dalla primitiva redazione manoscritta di fra’ Benedetto Fontanini a quella ampiamente rivista da Marco Antonio Flaminio pubblicata nel 1543.
Ma la particolarità del testo del 1975 sta nel fatto che non sono semplicemente proposti i risultati di una ricerca, ma ne vengono raccontati nel dettaglio tutti i passi, con conseguenze annunciate fin dalle prime righe: «Anziché un pollo arrosto con contorno di patate fritte il lettore si troverà sul piatto un pollo vivo e starnazzante, provvisto di penne e bargigli; fuor di metafora, non una ricerca rifinita e compiuta ma gli andirivieni della ricerca, le false piste seguite e scartate prima di arrivare a un risultato accettabile».
Un libro di ricerca storica che è anche una costante riflessione sulla metodologia della ricerca storica, compiuta non per grandi sistemi ma nel quotidiano dell’avventura del ricercatore: il piacere di tenere fra le mani un testo ottenuto con non poche difficoltà, le visite nelle biblioteche per spulciarne i cataloghi, i dialoghi forieri di nuove idee e diverse prospettive. Una ricerca resa ancora più interessante dal fatto che gli autori la compiono insieme ai loro studenti, partecipanti a un seminario tenutosi all’Università di Bologna nell’anno accademico 1971/72.
Niente di strano quindi che alcuni dei giochi di pazienza evocati dal titolo si svolgano nella biblioteca dell’Archiginnasio, dove docenti e studenti si recano a più riprese per consultare documenti oggi esposti o presenti nella versione online della mostra: le due copie del Compendio del Catarino, il manoscritto B 1859 che – allora inedito e ritenuto del 1549, secondo quanto indicato da Caponetto – oggi, pubblicato da Massimo Firpo nell’edizione critica dei documenti del processo al cardinale Morone, sappiamo essere riferito a quest’ultimo e databile agli anni 1569/70, il De libero hominis arbitrio di Gregorio Bornato. Infine il caso più curioso, che illustra in maniera paradigmatica uno degli assunti di Giochi di pazienza, cioè l’importanza della casualità, della serendipità, nell’attività di ricerca. Mentre è in caccia di testi che parlino di predestinazione – tema cruciale nel Beneficio – uno degli autori scopre L’heremita, ovvero della predestinatione di Marco Mantova Benavides grazie a «un errore del catalogo della biblioteca dell’Archiginnasio. Stava passando in rassegna tutti i “Marco” per rintracciare un Marco da Brescia benedettino saltato fuori dal repertorio dell’Armellini. L’heremita figurava come opera di “Marco da Mantova” – mentre tutti gli altri scritti del Mantova Benavides erano catalogati correttamente sotto “Benavides”» (p. 129).
Viene da pensare che abbia ragione l’uomo dai mille nomi quando nell’epilogo di Q, sorseggiando un qahvé nel tepore dei bagni di Istanbul, enuncia il precetto finale distillato dalle sue avventure: «Non si prosegua l’azione secondo un piano».