Il Fondaco dei Tedeschi

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Giuseppe Filosi, Il Fondaco de’ Tedeschi
(1728-1744 ca), incisione
L’originale è conservato presso il British Museum (Prints & Drawings, inventario: M,38.37) ©Trustees of the British Museum.

Cinquanta passi e siamo dentro. Intorno all’ingresso trambusto di capannelli: incrocio lo sguardo di Duarte. Solo un cenno della testa. Gresbeck è al mio fianco. Entriamo nel quadrilatero del Fondaco dei Tedeschi.
Al centro del cortile campeggia il pozzo, rialzato da due gradini di pietra. Il mio posto. Andirivieni di uomini d’affari, immancabile mescita di birra.

Terza parte. Capitolo 43 (Venezia, 5 novembre 1551)

Dal Fondaco dei Tedeschi prende avvio l’adrenalinica sequenza d’azione che chiude la vicenda del romanzo, prima dell’Epilogo. Ludovico/Tiziano e il neoalleato Gresbeck/Q devono mettere in salvo il verbale della confessione di don Pietro Manelfi, in cui lo stesso Tiziano viene denunciato insieme a un folto gruppo di anabattisti. Una pagina di questo documento potrebbe mettere in serio imbarazzo il papato, in quanto vi viene raccontato l’incontro notturno del nuovo papa Giulio III con il profeta anabattista e la promessa del Pontefice di intercedere per la liberazione di Benedetto Fontanini. I fedeli di Carafa sono quindi “in caccia” per impedire che questa pagina venga resa nota.
Questo piccolo “mistero”, su cui ruota tutta la terza parte del romanzo, viene suggerito agli autori dall’introduzione che Carlo Ginzburg premettere alla pubblicazione dei costituti di Manelfi, in cui si ipotizza appunto la mancanza di una pagina nei documenti consultati, eliminata dagli inquisitori proprio perché vi si raccontava quanto detto sopra (si veda C. Ginzburg, I costituti di don Pietro Manelfi, Firenze, Sansoni ; Chicago, The Newberry Library, 1970, p. 16-24).
La confessione di Manelfi, vero e proprio “braccio destro” di Tiziano, avvenuta a fine 1551, fu il frutto più succoso di quella «strategia del perdono» (A. Prosperi, L’eresia del Libro grande. Storia di Giorgio Siculo e della sua setta, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 208) inaugurata da Giulio III con due documenti datati 29 aprile 1550. Uno di questi, la bolla Illius qui misericors, prometteva di assolvere da pene e scomuniche chi entro tre mesi si presentasse per abiurare le proprie eresie. Si tratta di «un’offerta di sicuro successo» (ivi, p. 200-201) per attirare chi teme per la propria libertà e la propria vita essendo in sospetto di eresia. Senza correre rischi – è sufficiente “fare i nomi” e consegnare libri e documenti sospetti, come ingiunge di fare il secondo documento emesso da Giulio III – si ottiene un completo rientro nell’alveo dell’ortodossia cattolica e addirittura, almeno nel caso di Manelfi, una «ricca rendita mensile» (ivi, p. 208).
Dalle due bolle papali del 29 aprile 1550 – in seguito alle quali si ebbe a Roma, il 3 giugno, un rogo di libri eretici – trasse due Summarii in italiano Ludovico Beccadelli, che abbiamo già incontrato come biografo di Contarini e Pole. Questi “riassunti” servivano per facilitare l’applicazione delle bolle nel territorio di Venezia, dove Beccadelli era nunzio apostolico. Questi due documenti si trovano all’interno del fascicolo che contiene la confessione di Manelfi. Su questo particolare si veda C. De Frede, Due “avanzi” veneziani della stampa non libraria del ‘500 relativi all’eresia e ai libri proibiti, «Studi veneziani», XXXVIII (1999), p. 217-221. Ci sembra interessante citare qui la frase con cui De Frede conclude il suo breve articolo: «[Beccadelli] Disse inoltre che “nessun bisogno vi è de libri: pur troppo il mondo ne ha, massime dopo trovate le stampe; e meglio è che mille libri siano proibiti senza demerito, che permesso uno meritevole di proibizione”. Parole che suonano strane in chi era testimone dell’ammirazione suscitata da un libretto come il Beneficio di Cristo e della persecuzione onde era stato colpito» (ivi, p. 221). Le parole di Beccadelli citate da De Frede sono tratte dall’Istoria del Concilio Tridentino di Paolo Sarpi, in cui Beccadelli è presentato come un oppositore della tendenza che ebbe l’Indice tridentino del 1564 a moderare quello del 1559 emanato da Paolo IV Carafa. Questa “stranezza”, rilevata da De Frede, è segnalata anche da Gigliola Fragnito, che invita a prendere «con somma cautela» le parole riportate da Sarpi. Il Beccadelli infatti, da altri documenti autografia riportati da Fragnito, risulta piuttosto essere stato «fortemente critico […] nei confronti dell’indice paolino» e fautore di una sua revisione in senso fortemente moderato (si veda G. Fragnito, La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura (1471-1605), Bologna, il Mulino, 1997, p. 100-101 nota 50).